"Fernando mi adorava e aveva degli improvvisi momenti di passione che mi spaventavano ma che contemporaneamente mi lusingavano. Per esempio,un giorno che suo cugino era uscito entrò nella mia stanza. Senza dire una parola mi prese in braccio, mi portò nella stanza accanto, mi mise su una sedia e si inginocchiò ai miei piedi dicendomi le più grandi tenerezze. Un'altra volta, mentre eravamo alla fermata del tram in Rua de Sao Bento, mi spinse dentro un portone. Lì per lì non capii che cosa stesse succedendo, pensai anzi che magari, data la sua timidezza, avesse notato una persona conosciuta e volesse evitare che fossimo visti insieme. E invece, senza che me lo aspettassi, mi abbracciò con forza e mi baciò: un bacio lunghissimo, ma veramente lunghissimo."
Questo è un racconto di Ophélia Queiroz, pubblicato nella prefazione
di "Lettere alla fidanzata" da Adelphi, che si trovò a lavorare nello stesso ufficio di Fernando Pessoa. "Tutto cominciò con sguardi, bigliettini, messaggi che mi lasciava di soppiatto sulla scrivania".
Ed era già il "namoro", come si chiama in portoghese quel vago periodo che precede il fidanzamento ufficiale. Queste lettere testimoniano la profonda, irriducibile irrealtà in cui Pessoa sapeva lasciar precipitare ogni evento della sua vita personale, come se già questa locuzione fosse per lui un'incongruità. E tale era. Tanto più
preziose, tanto più insostituibili queste sue lettere alla fidanzata,
che accettano subito di partecipare, "proprio come i veri grandi
amori, del ridicolo e del sublime". [Tabucchi]
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