Data: 01-03-2009
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Più vero del vero, ovvero falso
PASSEPARTOUT EN HIVER
Domenica 1 marzo in Biblioteca Astense si parlerà dell’interessante tema della fotografia.
Ad incontrare il pubblico, che ogni domenica per la rassegna Passepartout en hiver si conferma numeroso, interessato ed attento, sarà Franco Rabino, artista che firma non solo fotografie e mostre poetiche e toccanti, come I Figli del Vento, ora a presso il Centro visite dell’Ente Parchi a Castagneto Po, ma anche testi e regie per il teatro. Da segnalare a proposito che il suo ultimo intenso e intelligente lavoro, Sofia, favola infelice e sospetta di periferia, interpretato da Valeria Dafarra andrà in scena a Parigi presso Cartoucherie Vencenner venerdì 13 marzo. Il dramma sarà recitato in lingua originale con i sottotitoli in francese.
Il titolo scelto per l’ incontro è Più vero del vero, ovvero falso, che Franco Rabino così spiega:
“La fotografia nasce in funzione della rappresentazione della realtà e dalla necessità che questa rappresentazione sia reduplicabile all’infinito, a differenza della pittura che è atto unico compiuto e non riproducibile.
Non a caso la sua data di nascita coincide con l’affermazione della rivoluzione industriale che sulla produzione in serie delle merci e dei beni di consumo ha la sua propria ragion d’essere. E in effetti, alle sue origini, la fotografia condivide con la pittura la staticità; è statico l’apparecchio fotografico per le riprese, che necessitano di moltissimi secondi di posa, così come è statica la tela sul cavalletto del pittore mentre questi dipinge.
Perché la fotografia imbocchi una strada radicalmente diversa occorrerà aspettare fino al 1923, quando Oscar Barnack inventa la Leica e stacca definitivamente l’apparecchio fotografico dal suo supporto mandandolo in giro per il mondo, facendolo muovere tra la gente e attraverso le frontiere, rendendo possibile per il fotografo il desiderio di abbassarsi fino al livello del suolo o alzarsi in volo a bordo di un aereomobile.
Con la Leica le prospettive diventano infinite; lo sguardo può essere obliquo, traverso, in diagonale, basso, alto o laterale.
Ma con l’avvento della Leica finisce anche l’illusione, durata quasi un secolo, dell’oggettività della fotografia, del suo essere narratrice imparziale del vero; l’occhio sul mondo che non mente. Si comincia a parlare di “punto di vista soggettivo” per meglio connotare il taglio individuale delle riprese. Così la fotografia abbandona il territorio della tecnica di riproduzione e si avvia, prima timidamente poi con passo sempre più deciso, verso le zone più confuse e dibattute dell’arte.
Nella testa del fotografo, attraverso l’immaginario e la cultura che si porta dietro, il mondo reale comincia ad essere continuamente destrutturato e ricostruito in funzione di coordinate individuali ed estetiche.
Ma l’idea che la fotografia rappresenti la realtà – ne possa essere lo specchio fedele - perdura fino ai nostri giorni nel sentire comune e quotidiano.
Questa chimera, l’illusione che esista sostanziale omogeneità tra ciò che è rappresentato e ciò che esiste nella realtà, ha fatto anche sì che la fotografia potesse essere tranquillamente asservita ai peggiori totalitarismi del secolo passato, contribuendo a creare nell’immaginario collettivo l’icona del capo, del comandante supremo e – nel contempo – alimentando la falsificazione dell’immagine collettiva di interi popoli e di intere nazioni.
Dunque la fotografia può essere estremamente pericolosa se continuiamo, a priori, ad attribuire ad essa una patente di veridicità: “E’ stato fotografato, dunque è vero” è un’affermazione inconscia, quasi un riflesso condizionato, che scatta dentro di noi ogni qualvolta un’immagine fotografica ci passa davanti agli occhi.
Hitler che riceve sorridendo un mazzo di fiori da una bambina bavarese e Stalin che come un nonno buono tiene sulle ginocchia un giovane pioniere dell’Unione Sovietica sono fotografati nella realtà, sono veri, autentici nella loro messa in scena, ma – nello stesso tempo – sono assolutamente falsi, irreali, lontani dalla loro storicità di personalità sanguinarie e deliranti.
Allora il vero e il falso di una fotografia, oserei dire di ogni fotografia, può essere misurato solo sui tempi lunghi e solo con strumenti che sono esterni alla fotografia stessa; la storia, la sociologia, la semiologia.
La fotografia da sola è incapace di derimere il vero e il falso in se stessa perché, semplicemente, ritaglia quadrati o rettangoli dal mondo togliendoli dal loro prima e dal loro dopo e, metaforicamente, appendendoli ad una parete o stampandoli sulle pagine di un libro o di un giornale, li sospende dal tempo.
Congela ed astrae una situazione e la rende assoluta.
Ma questo limite, questa incapacità di rappresentare il vero è, allo stesso tempo, la forza prima della fotografia quando questa ha la volontà di abbandonare il tentativo di rappresentare e si spinge invece decisamente verso il territorio della ricerca artistica, quando, cioè, dichiara apertamente di essere portatrice di una visione soggettiva ed individuale del mondo. Quando, a carte scoperte, trasfigura un dato della realtà e lo porta ad essere qualcosa d’altro; lo trasforma in metafora visiva, nuovo archetipo, richiamo ed eco di qualcosa che risuona nel profondo.
Probabilmente soltanto nell’assoluto e dichiarato falso, nella scelta cosciente di falsificare “in funzione di… “ è rintracciabile una scheggia di vero nella fotografia; non nell’essere tentativo di rappresentare ma piuttosto nella capacità di essere qualcos’altro, non nell’essere oggettiva ma invece fortemente soggettiva risiede la forza del suo essere linguaggio.
E allora, in fondo, qualcosa di vero rimane rintracciabile.”
L’ingresso è libero e tutti sono invitati.